
Autore: Gábor T. Szántó
Casa Editrice: Edizioni Anfora
Genere: Racconti
Traduttore: Richárd Janczer e Mónika Szilágyi
Pagine: 240
Prezzo: Euro 18.50
In 1945 (il ritorno), il racconto che apre questa preziosa raccolta di Gábor T. Szántó, la scena si apre su una stazione ungherese dove appaiono – come miraggio – due ebrei ortodossi: trasportano grandi casse dal contenuto dichiarato di cosmetici, ma il loro atteggiamento misterioso è tutt’altro che convincente.
Premuti dietro i vetri delle finestre, tutti gli abitanti del villaggio li osservano con curiosità e crescente apprensione: nella guerra, all’alba delle deportazioni, i beni degli ebrei se li erano spartiti tra loro, usurpando case e appropriandosi di negozi svenduti all’asta. Tremano ora al pensiero di un ritorno dei legittimi proprietari, al compiersi di una giustizia che come falce annienti e rovesci i destini.
Non potrebbe poi cadere in un momento peggiore, questo inspiegabile ritorno, mentre tutta la comunità si prepara a un matrimonio, una lieta occasione di festa, di simbolica rinascita.
È invece l’incedere lento dei due ebrei a catalizzare su di sé ogni attenzione, a innescare l’allerta: sarà il loro ritorno a risvegliare sensi di colpa mal sopiti che durano assai poco nei cuori di chi vive nella piccola città, sostituititi in breve da immortale antisemitismo e risentimento feroce, sotterraneo, che parla di odio per chi fu, in un tempo passato da poco, vicino di casa (perciò tragicamente, eternamente attuale) e di rivendicazione di novelle legittimità.
Le parole che passano per la mente del carrettiere che li conduce alla meta che si sono prefissi, il cimitero, esprimono un sentimento condiviso: devono avere un gran potere se osano tornare a casa tutti soli, qui, da dove sono stati costretti ad allontanarsi così vergognosamente, e in un batter d’occhio si riprendono ciò che era loro.
Del resto, lui stesso appena un anno prima trovava esagerato che li buttassero fuori dalle loro case e che li portassero chissà dove, anche se riteneva giusto che, a giovare di quei beni, fossero i suoi simili. Non è giusto che loro abbiano tutto e chi è messo al giogo da generazioni su questa terra viva in miseria.
In questo primo racconto di 1945 e altre storie, una raccolta tutta splendida pubblicata da Anfora nell’attenta traduzione di Richárd Janczer e Mónika Szilágyi, Szántó evita quasi il dialogo, parla piuttosto per pensieri, affastellando uno sull’altro le riflessioni sollecitate dalla vista di chi osserva tremante il passaggio costruisce con stile impeccabile un’intera vicenda che ne sottende mille altre, individuali e di popoli.
Bastano sguardo e pensiero a convogliare ogni sommovimento profondo delle emozioni: una particolarità che rende ideale la storia per essere portata sul grande schermo come in effetti è successo, in una pellicola in bianco e nero del 2017 per la regia di Ferenc Török.
Il primo racconto, da cui il titolo, viene ambientato nel momento in cui la Storia, quella occidentale in senso lato, sembra già essere passata, e solo apparentemente conchiusa, risolta.
Ma Szanto, narratore, poeta e sceneggiatore, che si autodefinisce l’ultimo scrittore ebreo ungherese, decide di esplorare l’essenza ebraica anche in tempi diversi, fino a raggiungere i giorni nostri perché rimangono responsabilità che vanno ancora definite e rielaborate, nel collettivo e nel singolo: se Vita, in tranquillità narra la storia di due reduci dai campi di concentramento che si prefiggono di ritrovare e ricattare ex ufficiali nazisti, un compito nelle apparenze – anche qui – eroico (che si ritrova anche in A Onor del vero), dal finale triste e inatteso, altre e attualissime sono le sfaccettature etiche che l’autore affronta in un complicarsi di sfaccettature dell’ebraicità. In Trans, il protagonista sta portando a termine gli studi intrapresi per diventare rabbino. Proprio nel momento in cui sta per completare una fase esistenziale e per rivestirsi di nuova identità, comprende che è in quella di genere che non si riconosce. Ma l’impegno di fare conoscere il Talmud non prevede la trasformazione in un corpo nuovo e andranno prese definitive decisioni.
Un piccolo gioiello, struggente, è poi Il primo Natale, incentrato sul sentirsi perennemente altro e nel ricercare una conciliazione con il resto del mondo, ma vanno segnalati anche Mirko e Marion sulla potenza del desiderio sessuale, così come il feroce Affetto, in cui la madre di un ragazzo disabile comprendendo le esigenze del figlio e l’impossibilità di una loro realizzazione, stabilisce con lui un rapporto che si spinge a infrangere ogni limite etico, per profonde solitudini e assoluto amore, trasformandosi un un’eroina dall’altezza tragica.
Gábor T. Szántó maneggia materiali incandescenti – traumi individuali e collettivi ancora da sviscerare ed elaborare – già affrontati da altri autori, certo, ma riuscendo a evitare di scadere nella retorica, rifuggendo dall’immagine di facile impatto, indugiando sulle difficoltà del persistere e rielaborare della memoria, in una narrazione cui tout se tient e le istanze di fondo si complicano e vengono arricchite da altre.
La voce di Szántó è salda e tagliente nel suo bilanciarsi tra passato e presente, muovendosi dalle vite individuali delle vittime di una persecuzione e ancor più da quelle dei loro discendenti in perenne ricerca di una collocazione.
Il suo stile è accurato, potente: è molto interessante la scelta di Edizioni Anfora di portare questa sua opera in Italia, così come altri titoli di grandi autori qui ancora poco conosciuti – Magda Szabó, Imre Oravecz – in un catalogo che si fa felice progetto di diffusione di tutto un sentire centroeuropeo.